Hey-Ho-Let’s go!

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Il 23 aprile scorso sono passati esattamente 40 anni dalla pubblicazione dell’album di esordio dei Ramones (The Ramones, 1976, Sire Records), inserito da Rollingstone nella classifica dei migliori album rock di tutti i tempi, esordio dei 4 ragazzi di New York che ha segnato l’inizio del mito dei Ramones. Per l’occasione, abbiamo chiesto al nostro amico Mr. D, rockettaro non dell’ultima ora, di regalarci una recensione veloce e senza fronzoli di The Ramones.

“Hey-Ho-Let’s go!”: grido di battaglia che apre l’esordio su disco, omonimo, dei Ramones.

E’ il 1976 e pur non essendo ancora finito sulle prima pagine dei tabloid il punk è già nell’aria da qualche anno, evoluzione del garage rock degli anni ’60, a sua volta revival lo-fi del rock’n’roll delle origini (nel rock’n’roll non ci si inventa mai niente). Ma questo disco ha una sua personalità che lo rende subito ben distinguibile da quelli di Stooges e New York Dolls, come anche da quelli successivi di Clash e Sex Pistols.

Il fascino e la personalità dei Ramones sono subito evidenti, ma più difficile è dire da cosa nasca questa sensazione di unicità. Forse per la prima volta la furia punk non è una semplice sbrodolata rabbiosa di blues-rock alla Rolling Stones inacidito dall’anfetamina, ma appare in qualche maniera “pensata” e “organizzata”. Le radici affondano saldamente negli anni ’50, ma c’è meno blues e più pop, meno Jerry Lee Lewis e più Beach Boys. Una sana strafottenza prende il posto della rabbiosa iconoclastia dei predecessori (e soprattutto dei successori): una rivolta sonora basata sull’indifferenza e sull’indolenza più che sull’esagitazione. L’immagine e il suono sono coerenti: il chiodo è lo stesso che Marlon Brando indossava ne “Il Selvaggio”, ma i quattro “fratelli Ramone” in copertina lo indossano con trasandata indifferenza, su jeans strappati e sneakers devastate da chilometri macinati su strade malfamate.

Le canzoni sono quanto di più semplice si possa immaginare, un piccolo campionario dei giri più semplici che una band di musicisti alle prime armi possa concepire, ma gli arrangiamenti ordinatamente essenziali, senza assoli e altre intemperanze da primedonne, lasciano spazio alle melodie e ai cori, che occupano la maggior parte dello spazio sonoro.
Gli strumenti sono relativamente “puliti” e suonati nel modo più lineare possibile: la batteria di Tommy scandisce il ritmo con il rullante giustamente in evidenza e piatti un po’ “indietro”, per non rubare spazio alle voci; un’unica traccia della chitarra elettrica di Johnny (pochissime le sovraincisioni: forse solo una seconda chitarra che doppia il riff della ritmica su “Now I wanna sniff some glue” e “Havana Affair”, un arpeggio su “I wanna be your boyfriend” e pochissimo altro) a volume bassissimo (specie per il genere, a testimonianza di una certa vocazione “pop” del mix) sul canale destro; il basso plettrato e slabbrato di Dee Dee sul canale sinistro, quasi sempre all’unisono con la chitarra. La voce di Joey biascica le parole con la stessa sardonica indolenza, senza enfatizzare l’interpretazione di un passaggio o di un concetto piuttosto che di un altro, contribuendo così a trasmettere quel senso di beffarda strafottenza.
Sui dischi successivi, fin da “Leave Home” dell’anno successivo, verranno introdotte altre atmosfere, le tracce di chitarra aumenteranno di numero e volume, acquisendo un maggiore impatto e indurendo il sound complessivo; la raffinatezza delle produzioni crescerà insieme ai budget (l’esordio è stato prodotto con poco più di 6.000 dollari), pur mantenendo salvo fino alla fine il marchio di fabbrica e la coerenza stilistica della band.

Ma questo esordio, con la sua azzeccatissima produzione “bare bones” conserva intatta la sua magia anche nella ristampa (rispettosamente) rimasterizzata del 2001.
Ogni tanto il rock’n’roll ha bisogno di quattro ragazzini squattrinati e annoiati che riavvolgano il nastro e lo facciano ripartire dalle sue origini, alla faccia delle divagazioni intellettualoidi e barocche del progressive e delle tentazioni mainstream delle classifiche. Nel 1976 erano tanti gli aspiranti “salvatori della patria”, ma ai Ramones va senz’altro riconosciuto il primato dell’essenzialità … che nel Rock – quello vero – vince sempre.

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